L’apocalittico no dello smartphone a scuola

Un paio di giorni fa mi è capitato di leggere (per puro caso) l’allegato a una circolare ministeriale che ribadisce – ancora una volta – lo stop agli smartphone in classe. La circolare di riferimento è quella con cui il 20 dicembre scorso il ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara fornisce indicazioni sull’uso in classe dei dispositivi elettronici. Nel testo, come evidenziato anche da Skytg24 , si fa riferimento alla necessità di restituire autorevolezza ai docenti e si ribadisce – qualora ce ne fosse stato bisogno – il divieto all’uso del cellulare in classe. Fin qui nulla di nuovo.

O meglio, qualche dubbio io ce l’ho: ma veramente un docente acquista autorevolezza solo se vieta l’uso dello smartphone? Non sarebbe meglio insegnare cosa si può fare con la nuova tecnologia anziché bandire un generico stop che tende a demonizzare lo strumento senza formare chi, invece, una volta uscito dall’aula col cellulare potrà fare comunque quello che vuole? Si può, in nome di una non meglio precisata autorevolezza, pretendere che per le 5/6 ore in classe ognuno resti isolato dal mondo? Sì, storcete pure il muso: i tempi sono cambiati.

Sono rimasta meravigliata, inoltre, dall‘allegato (un documento approvato dalla settima commissione permanente “Istruzione pubblica e beni culturali” del Senato lo scorso 9 giugno 2021). Il testo è stato approvato al termine di una indagine conoscitiva sull'”impatto del digitale con particolare riferimento ai processi di apprendimento”.

Senza scendere nei dettagli, ci sono due aspetti che hanno colpito particolarmente la mia attenzione; due temi evidenti a chi vuole leggere tra le righe: la demonizzazione del digitale e una totale mancanza di fiducia nelle potenzialità della scuola (di evolversi ma anche di educare, non solo in senso classico). E da quel testo ho capito anche perché ci sono – anche tra i giovanissimi – tanti problemi con il digitale e con le nuove tecnologie: ne disponiamo quotidianamente ma non siamo “educati” a usarli.

Tra le righe di quel documento ho intravisto una visione apocalittica legata alle nuove tecnologie nonostante l’intenzione – richiamata nelle conclusioni – di “non dichiarare guerra alla modernità”. Ma come si fa a non dichiarare guerra alla modernità se se ne vieta l’uso?

Quello che mi ha lasciato (e mi lascia più pensare) è la chiosa finale: “Giovani schiavi resi drogati e decerebrati: gli studenti italiani. I nostri figli, i nostri nipoti. In una parola, il nostro futuro”. Ora, ditemi quello che volete, ma – smartphone o non smartphone – io non vedo giovani decerebrati. Vedo, invece, generazioni che spesso, complici anche queste visioni apocalittiche dei nuovi media, sono costretti a studiare solo in maniera antica.

Facciamocene una ragione: possiamo cacciare lo smartphone dal mondo dell’istruzione, bandirlo nelle scuole; ma i nuovi dispositivi continueranno a esistere nelle vite di tutti, docenti, alunni e politici; allora perché non imparare a usarli bene e impiegarli come aiuto allo studio?

Il giornalismo e il rischio (concreto) del praticantatificio

Le porte del giornalismo di professione si spalancano anche ai social media manager e alla corposa platea di precari che da sempre affolla il mondo della comunicazione.

A partire dal prossimo mese di gennaio, per diventare giornalisti praticanti «sarà necessario consegnare all’Ordine regionale la documentazione attestante la continuità dell’attività giornalistica esercitata in maniera sistematica, prevalente e regolarmente retribuita, per almeno i sei mesi precedenti la domanda».

Non più solo praticantato presso una testata giornalistica e ricongiungimento: per diventare professionisti dell’informazione basterà dimostrare di aver lavorato nei sei mesi precedenti alla presentazione della domanda alla «produzione giornalistica, comprensiva di scritti e/o fotografie e/o video e/o audio per giornali cartacei, radio e/o tv, piattaforme e canali on line e uffici stampa».

L’Ordine dei giornalisti – come annunciato appena qualche settimana fa – ha varato le nuove linee interpretative dell’articolo 34 della legge n. 69/1963. L’interpretazione che potrebbe apparire rivoluzionaria è stata approvata lo scorso 8 novembre dal consiglio nazionale ed è presentata come la necessità di andare «incontro alla professione che cambia».

Dalla novità interessante al “praticantatificio” il passo potrebbe essere molto breve. Sull’argomento fa scuola quanto accaduto negli anni con i giornalisti pubblicisti: basta dare un’occhiata ai social per accorgersi della miriade di giovanissimi che cercano collaborazioni fittiziamente retribuite per testate giornalistiche con lo scopo di agguantare il “patentino”. E no, non ce la fate a convincerli che si tratta di tesserino e che, pure se non è esercizio “esclusivo” di una professione, si tratta di una cosa seria: loro il “patentino” lo vogliono perché fa curriculum (dicono) e perché consente loro di entrare gratis ai musei (quando capita) e di avere gli accrediti per gli eventi. Accadrà lo stesso per i professionisti? Lo scopriremo tra non molto…

Nella nuova interpretazione dell’art. 34 della legge n.69/1963, la discrezionalità dell’iscrizione al registro dei praticanti viene lasciata ai consigli degli ordini regionali che «possono – si legge nelle linee guida – come modalità eccezionale, procedere all’iscrizione al Registro dei praticanti a seguito dell’accertamento del lavoro giornalistico svolto».

Il dubbio ci sta tutto: un aspirante praticante – a parità di documenti presentati – ha le stesse possibilità di sostenere l’esame sia in Lombardia sia in Sicilia?

L’iter. L’Ordine regionale, una volta ricevuta l’istanza, affiderà l’aspirante professionista a un tutor che avrà il compito di relazionare sulla condotta del “tirocinante”. Seguiranno, poi, dei corsi di formazione obbligatori sulla deontologia professionale e, poi, al termine dei 18 mesi tradizionali di praticantato, si potrà sostenere l’esame.

La novità arriva nell’attesa di una riforma complessiva e organica della professione giornalistica. La legge istitutiva della professione ha sessanta anni; più di un’era geologica per le novità che hanno riguardato il settore dell’informazione e della comunicazione.

Secondo il presidente nazionale dell’Ordine dei giornalisti, Carlo Bartoli, quello compiuto dall’Ordine è «un piccolo passo ma una coraggiosa innovazione fatta in autoriforma», in attesa di «riscontri positivi dal nuovo Parlamento per una riforma organica della professione».

Una innovazione coraggiosa, certo. Ma come si possono mettere a tacere quelli che da anni sostengono convintamente la tesi dell’inutilità di un ordine professionale? L’aumento esponenziale di professionisti, in un settore già saturo e con ridottissime possibilità occupazionali, non è una ammissione implicita della necessità di liberalizzare la professione?

E come la mettiamo, poi, con le recenti polemiche sull’esercizio abusivo della professione e sui processi mediatici?

Una riforma seria e organica della professione passa anche da qui. O l’Ordine saprà reagire, operare e convincere; oppure finirà per dare implicitamente ragione a quelli che da anni sono per “liberalizzare tutto”.

Ora i social media manager diventano giornalisti

Sono una donna all’antica e non capisco la presa di posizione di chi sostiene che i social media manager siano giornalisti e – come tali – debbano essere iscritti all’Ordine. Sia chiaro: se sei giornalista e poi sei pure social media manager va bene; ci mancherebbe. Evidentemente ti sei specializzato, hai studiato e hai approfondito una tematica della comunicazione. Ma perché dovrei iscrivere all’Ordine uno che di mestiere lavora solo con i social?

Mi sono casualmente imbattuta in un articolo in cui Domani annuncia un vero e proprio allargamento della professione: forse già da gennaio i social media manager potranno diventare anche praticanti. Il giornale lo spiega citando semplicemente quanto riferito dal vicepresidente dell’Ordine dei giornalisti, Angelo Luigi Baiguini, durante un corso di formazione professionale incentrato proprio sul tema del rapporto tra l’informazione e il mondo social.

Io resto perplessa: la mia non nè una chiusura mentale alle altre professioni; si sa che se un mestiere non si adegua ai tempi che cambiano rischia di morire… Ma veramente un social media manager è un giornalista professionista? Nel dubbio sono andata a spulciare la definizione del vocabolario.

Giornalista: s. m. e f. [der. di giornale2] (pl. m. -i). – 1. Chi, per professione, scrive per i giornali, e chi collabora, come redattore, alla compilazione di un giornale: fare il g.; essere iscritto all’albo dei g. (come professionista o come pubblicista, secondo che si eserciti questa sola attività, o che si svolgano anche altre attività retribuite o professioni); specificando: g. sportivo, g. parlamentare; g. della carta stampata, radiofonico, televisivo; g. d’assalto, specializzato in inchieste volte a denunciare problemi sociali, scandali e sim. 2. Nel sec. 18°, compilatore, scrittore di un giornale letterario. (Treccani)

E allora? Scrivere per i social è come scrivere per i giornali? E se così fosse, dovremmo essere tutti giornalisti, senza esclusione alcuna. La legge istitutiva della professione dice che:

È istituito l’Ordine dei giornalisti.
Ad esso appartengono i giornalisti professionisti e i pubblicisti, iscritti nei rispettivi elenchi dell’albo.
Sono professionisti coloro che esercitano in modo esclusivo e continuativo la professione di giornalista.
Sono pubblicisti coloro che svolgono attività giornalistica non occasionale e retribuita anche se esercitano altre professioni o impieghi. (art. 1 legge n.69/1963)

Insomma, qui non si tratta solo di ampliare l’accesso alla professione; dobbiamo cambiare anche le definizioni.

In effetti il contratto da social media manager utile al praticantato potrebbe essere semplicemente un ulteriore allargamento del ricongiungimento che – da anni – ha dato accesso al professionismo a chi, visti i tempi, un contratto da praticante se lo sogna. Però poi forse a questo punto bisognerà chiedersi se e come si svaluti la professione; e magari interrogarsi ancora sulla riforma della legge istitutiva dell’Ordine, oramai più che vecchia.

Se si amplia la platea dei professionisti in un mercato già saturo e in grave crisi (ora come non mai), come potranno ordine e sindacato difendere i proprio iscritti? Basterà solo la vigilanza e la tutela della deontologia professionale per sopravvivere? Sono riflessioni serie, che non possono essere concentrate in poche righe né in poco tempo.

Una cosa è certa: il dibattito sull’allargamento della professione ai social non è nuovo di zecca: già due anni fa se ne cominciò a parlare, forse con l’intento, neanche tanto nascosto, di dare una boccata d’ossigeno all’Inpgi. La svolta adesso appare imminente. Chissà che ne pensano tutti gli iscritti…

Le “nuove assunzioni” acchiappaclick

“Pubblicato il bando per le nuove assunzioni al Comune”. Un titolo a effetto, una mirata condivisione sui social ed ecco che il post diventa virale. Centinaia di condivisioni e ancora più commenti. Poco importa se quel post è sic et simpliciter un acchiappaclick. Basta aprire il link per rendersene conto: nel migliore dei casi si tratta di un concorso in un ente geograficamente più che distante dalla sede della testata giornalistica che ne dà notizia; nel peggiore, di un comune neanche menzionato.

Qual è il problema? Che nel primo caso si sfrutta la buonafede del lettore che cerca nella testata locale informazioni locali e in un titolo che potrebbe essere a dir poco suggestionante; nel secondo caso c’è proprio una mortificazione del giornalismo e di tutte le attività a esso connesse.

La nuova frontiera dell’informazione passa anche da qui.

Un tempo ci avevano istruito a dovere su come stanare le fake news – di cui si parla e straparla tanto: titoli a effetto, notizie che ingannano, che hanno il solo scopo di portare più visite al sito di turno. Oggi, evidentemente non basta più. Ed ecco che – evidentemente approfittando della crisi economica, di chi scrolla homepage e siti all’affannosa ricerca di un posto di lavoro – la simil-fake news approda nel mondo del lavoro e dei concorsi. Perché? C’è la smanìa di agguantare quante più visite possibili, di mostrare agli inserzionisti numeri da urlo delle pagine social, con tanto di interazioni, condivisioni e commenti. Poco importa se il 50% di quelle interazioni sono negative o se l’altro 50% quel pezzo non lo ha letto nessuno.

Sarà la legge del marketing e della pubblicità? Può darsi; anzi, lo è. Ma è giusto che la legge economica prevalga oggi su quella dei contenuti quando si parla di informazione?

Ci sarebbe tanto su cui interrogarsi a proposito del giornalismo oggi. Ma io mi interrogo e mi preoccupo – prima ancora che dell’informazione – del fatto che il 50% degli utenti medi (e mi sento generosa nella stima approssimativa) abbia deciso di condividere un post dando per scontato il contenuto, senza neanche leggerlo, e senza neanche rendersi conto di cosa ha condiviso con gli amici.

C’è molto da riflettere sul giornalismo; ma c’è tanto da riflettere anche sui lettori…

Esiste ancora la notizia senza comunicato stampa?

Ma la notizia senza comunicato stampa esiste ancora?

Me lo chiedo provocatoriamente da sempre; pubblicamente da un paio di giorni. Una sorta di timore reverenziale verso un mondo che tuttora adoro, e di cui faccio parte, mi ha portato sempre a essere obiettiva con me stessa ma a evitare domande simili in pubblico. La considerazione, però, adesso va fatta. E non per vestirmi da maestrina e puntare il dito contro chi, quotidianamente e con grandi difficoltà, confeziona un prodotto informativo che raggiunge le nostre case (sotto forma di carta stampata, web, radio e tv). La considerazione va fatta perché forse – modestamente forse – in questi dubbi potremmo trovare una delle risposte alla crisi atavica che riguarda il mondo dell’informazione.

Mi è capitato di recente di acquistare i giornali con uno scopo preciso: volevo notizie su un fatto di cui ero a conoscenza. Ora, tutti i manuali di giornalismo vi avranno stancamente ripetuto la differenza tra un fatto e una notizia (e non è mia intenzione tediarvi ulteriormente); però io sapevo di un fatto notiziabilissimo e volevo leggere la notizia, conoscere i dettagli, approfondire. Sapete cosa è successo? Del fatto notiziabile neppure l’ombra; neanche un trafiletto di quelli in cui spesso – ahimé – si nascondono agevolmente le notizie. Niente di niente. E allora mi sono rassegnata. Poi, passati un paio di giorni, quando io oramai ero rassegnata a non saperne di più, su quel fatto, sono “usciti” numerosi comunicati stampa politici e non, tante note stampa da rendere necessaria una narrazione giornalistica. E solo allora il fatto – notiziabile in origine – è diventato notizia. Ma lo è diventato non in quanto notizia ma come dichiarazioni di personaggi pubblici su un fatto. Una sorta di “me ne lavo le mani, lo dicono loro”.

E allora io mi chiedo: che senso ha un’informazione che è solo megafono di comunicazioni oramai alla portata di tutti?

Francamente non lo so, mi interrogo. E vorrei lo facessero tutti quelli che fanno parte di questo mondo. Evidentemente è così che nascono i giornali omologati, le notizie fotocopia e i pezzi – su testate differenti – che sembrano scritti tutti dalla stessa mano…