Il giornalismo e il rischio (concreto) del praticantatificio

Le porte del giornalismo di professione si spalancano anche ai social media manager e alla corposa platea di precari che da sempre affolla il mondo della comunicazione.

A partire dal prossimo mese di gennaio, per diventare giornalisti praticanti «sarà necessario consegnare all’Ordine regionale la documentazione attestante la continuità dell’attività giornalistica esercitata in maniera sistematica, prevalente e regolarmente retribuita, per almeno i sei mesi precedenti la domanda».

Non più solo praticantato presso una testata giornalistica e ricongiungimento: per diventare professionisti dell’informazione basterà dimostrare di aver lavorato nei sei mesi precedenti alla presentazione della domanda alla «produzione giornalistica, comprensiva di scritti e/o fotografie e/o video e/o audio per giornali cartacei, radio e/o tv, piattaforme e canali on line e uffici stampa».

L’Ordine dei giornalisti – come annunciato appena qualche settimana fa – ha varato le nuove linee interpretative dell’articolo 34 della legge n. 69/1963. L’interpretazione che potrebbe apparire rivoluzionaria è stata approvata lo scorso 8 novembre dal consiglio nazionale ed è presentata come la necessità di andare «incontro alla professione che cambia».

Dalla novità interessante al “praticantatificio” il passo potrebbe essere molto breve. Sull’argomento fa scuola quanto accaduto negli anni con i giornalisti pubblicisti: basta dare un’occhiata ai social per accorgersi della miriade di giovanissimi che cercano collaborazioni fittiziamente retribuite per testate giornalistiche con lo scopo di agguantare il “patentino”. E no, non ce la fate a convincerli che si tratta di tesserino e che, pure se non è esercizio “esclusivo” di una professione, si tratta di una cosa seria: loro il “patentino” lo vogliono perché fa curriculum (dicono) e perché consente loro di entrare gratis ai musei (quando capita) e di avere gli accrediti per gli eventi. Accadrà lo stesso per i professionisti? Lo scopriremo tra non molto…

Nella nuova interpretazione dell’art. 34 della legge n.69/1963, la discrezionalità dell’iscrizione al registro dei praticanti viene lasciata ai consigli degli ordini regionali che «possono – si legge nelle linee guida – come modalità eccezionale, procedere all’iscrizione al Registro dei praticanti a seguito dell’accertamento del lavoro giornalistico svolto».

Il dubbio ci sta tutto: un aspirante praticante – a parità di documenti presentati – ha le stesse possibilità di sostenere l’esame sia in Lombardia sia in Sicilia?

L’iter. L’Ordine regionale, una volta ricevuta l’istanza, affiderà l’aspirante professionista a un tutor che avrà il compito di relazionare sulla condotta del “tirocinante”. Seguiranno, poi, dei corsi di formazione obbligatori sulla deontologia professionale e, poi, al termine dei 18 mesi tradizionali di praticantato, si potrà sostenere l’esame.

La novità arriva nell’attesa di una riforma complessiva e organica della professione giornalistica. La legge istitutiva della professione ha sessanta anni; più di un’era geologica per le novità che hanno riguardato il settore dell’informazione e della comunicazione.

Secondo il presidente nazionale dell’Ordine dei giornalisti, Carlo Bartoli, quello compiuto dall’Ordine è «un piccolo passo ma una coraggiosa innovazione fatta in autoriforma», in attesa di «riscontri positivi dal nuovo Parlamento per una riforma organica della professione».

Una innovazione coraggiosa, certo. Ma come si possono mettere a tacere quelli che da anni sostengono convintamente la tesi dell’inutilità di un ordine professionale? L’aumento esponenziale di professionisti, in un settore già saturo e con ridottissime possibilità occupazionali, non è una ammissione implicita della necessità di liberalizzare la professione?

E come la mettiamo, poi, con le recenti polemiche sull’esercizio abusivo della professione e sui processi mediatici?

Una riforma seria e organica della professione passa anche da qui. O l’Ordine saprà reagire, operare e convincere; oppure finirà per dare implicitamente ragione a quelli che da anni sono per “liberalizzare tutto”.

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